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Γράϕειν

Incidere, disegnare, scrivere, dipingere. Due imprese editoriali hanno segnato l'anno MMXV: Adelphi (leggi: Roberto Calasso) ha diffuso la Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna, stampata da Aldo Manuzio nel 1499, nel quinto centenario del trapasso di Aldo; ancora Adelphi presenta, di Giulio Camillo, la "Idea del Theatro", titolo di conclamato neoplatonismo.
Quale evento trigemino di quest'anno, affine ai due precedenti, io ammetto e riconosco la agnizione dell'opera grafica di Tonino Poce, che non supponevo così estesa e frequentata, incisa, disegnata, scritta, dipinta sulle pagine in folio vaste e inconsutili, grandi ali paraclite di un antifonario laico e contemporaneo. Tonino Poce, che adora Mozart e Piero della Francesca, è antiaccademico, niente crusca, niente Arcadia, niente Bosco Parnaso, astrale e astratta è la luce, come di chi abbia abolito le ombre e i vaneggianti richiami, senza echi, senza risonanze, senza armonici: suono puro, suono pitagorico, quinta giusta, incanto di neve e di oro, accanto alla assoluta novità del nero, non più colore del Tartaro, non più colore infero o lavico ma contrassegno di un oggetto, una res meteorica ancora non interpretata - preavviso, minaccia, imprecatio, deploratio, alleanza, spes - caduta dal cielo.
Frequenti appaiono le iscrizioni, profetiche, bifronti parole di un deuteronomio che incalza la nostra indifferenza, denuncia la nostra inerzia.
Evocano i precedenti della scrittura cuneiforme, degli obelischi, della pietra di Rosetta, del Liber Linteus di Zagabria, le stupefacenti porte della Sacra famiglia di Barcellona ricoperte di iscrizioni nel meraviglioso capitale bodoniano, del latino lapidario e onorario, della sacramentale

scrittura islamica. Ma, eucaristica, eudemoniaca, illibata è l'ostensione, a Iraklion di Creta, della particula circolare, dell’ostia del disco di Festo, alla cui eminenza accludo l'opera di Tonino Poce: opera non didascalica, non didattica, non pedagogica, ma opera etica, che mette in moto la tragedia contemporanea, con le sue sventure e le sue viltà.

Incalzato dalla sua implacabile moralità non accetterò di sfiorare una generica indignazione ma, passim, professerò alcuni precisi propositi:
a) vorrei che il prete abiurasse al suo cesaropapismo e che imparasse chi è Cesare Catarinozzi e un organo positivo, di quelli che ha distrutto a migliaia; che conoscesse l'autore dell'ancona che sta sull'altare maggiore e sapesse pronunciare correttamente il nome di Sebastiano Conca; che leggesse bene il latino e il gregoriano del suo graduale;
b) vorrei che il purista di turno, lo zotico probone di passaggio cominciasse a supporre che il frocio non è un pervertito: egli sogna e ama, è l'angelo di Dio precipitato dagli altari, come tutti noi, come lui stesso;
c) vorrei che l'indifferente, insaziabile di pensioni e di prebende e di vitalizi, sapesse che il migrante non è una medusa ripudiata dal mare, coperta di lurida sabbia: il migrante è una Turris davidica, porta la stella e la croce sul petto, lo stesso contrassegno di noi tutti, figli della Genesi.
Tali propositi sono ispirati dalla memorabile lezione di Tonino Poce, dai suoi teleri di carta, maestosi come gli Exultet di Montecassino, Vexilla Regis, vera civiltà neo-cosmatesca.
Feliciter.

                                                                                                 Giuseppe Agostini

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