ANTONIO POCE
Visual Artist
Pange lingua
di Antonio Poce
Negli archivi che alimentano il mio processo creativo affluiscono materiali e figure che hanno abitato arti e discipline diverse. Le immagini, la musica, la poesia e le altre scritture, sono mosse dal desiderio di riunirsi quali organi di uno stesso corpo, distretti dalla stessa mente.
La mia visione del mondo si è evoluta in funzione di tali potenzialità percettive e creative. Le opere sono totalmente impegnate ad associare l'indefinito e l'esattezza; lo stupore della rappresentazione e il rigore delle tecnologie; l’esigenza di un ordine stabile e la fugacità dell’evento verbovisivo. Nella complessa liquidità dei segni è dispiegata tutta l'energia, intrinsecamente coniugante, delle singole arti. La visione aumentata si pone allora come premessa e obiettivo della progettazione intermediale.
Canta, o lingua è un Inno di Venanzio Fortunato (530-607) composto per la liturgia In cena Domini, uno dei momenti più significativi della cristianità. La lingua invoca il sostegno della musica e delle immagini per riuscire a comunicare il mistero dell’incarnazione. Come insegna Agostino: «Se non potete spiegarvi con le parole, non per questo abbia termine la vostra esultanza!».
Di questa antica sapienza creativa ci rimane il valore della visione interiore e l'attitudine alla sintesi poetica, a condizione che esse siano sottratte all’umiliazione del pensiero dialettico e alla insopportabile violenza della cultura antagonista.
«Rettitudine e felicità si sono baciate», dice il generale Lorens Lowenhielm ne Il Pranzo di Babette, salutando i propri commensali mentre sono sul punto di ricongiungere la propria esistenza con un desiderio di Bellezza perennemente mortificato dalla religiosità retriva e spietata di quei tempi. Con le sue composizioni di sapori, Babette Hersant aveva turbato le coscienze e ottenuto il miracolo della riconciliazione: «Il grido che esce dal cuore dell’artista risuona per tutto il mondo. Consentitemi di dare tutto il meglio di me». Così aveva detto.
Non so quali suoni avvolgessero le immagini dissolventi e simultanee della caverna di Lascaux, quali parole, quali voci o canti incrociassero quelle prospettive metafisiche; sono certo però che la nostalgia di una percezione arricchita, e perfino allargata, rispetto alla singolarità dei cinque sensi, rappresenti un sogno permanente nella storia della specie umana. Su questa speranza ho costruito tutto il mio programma di lavoro.
Per nessuna ragione rinuncerei alle immagini sfumate dell’aurora o alla vaghezza dei suoni nel momento in cui essi prendono a germogliare dal silenzio.
Quale ultimo migrante nel territorio della poesia espansa, tra forme esenti da angosce conflittuali e opere nascenti da progetti intrinsecamente intermediali, confermo che percepire con tutto il corpo rimane premessa e destino dell'attività creativa.