top of page

L’utopia di segni plurimi intrecciati sul bianco

di Marcello Carlino 

2022

In queste opere di Antonio Poce l’incontro tra i diversi campi linguistici e semantici, che è da considerare fondativo nella poetica dell’autore e nelle iniziative teorico-artistiche associate di cui è anima, è regolato da alcune costanti dallo spiccato valore di senso.

Intanto la verbalità espleta un mandato tutt’affatto ragguardevole, primario. Raccolta fittamente sui pezzi di superficie cilindrica (quasi in tiro analogico con i rulli degli organetti di Barberia), la scrittura svolge il tema di una metasemantica dell’armonia, con palesi riverberi sonori. Sciorinata in brevi stringhe calligrafiche tagliate come in versi, così da assecondare uno speciale talento di Poce,  e detta come in strofette di poesia, la scrittura esprime i segni di una presenza attiva, di forte impatto e di persuasa responsabilità: la lettura ciclica delle ore del giorno come denso concentrato di stimoli sensoriali e di occasioni di pensiero partecipe che il soggetto recupera ritrovandovisi; la capacità di apertura e di speranza di salvazione che le arti promuovono quando sorelle, quando figurate in condivise movenze, quando intrecciate in morbidi passi di danza.

Lo sfondo, poi, spicca per una perseverante dominanza del bianco, un bianco che sa della purezza e della assolutezza del silenzio, un bianco che s’adopera per spazio di vibrazione e di consociazione ritmica dei costituenti del testo, lasciati liberi, in uno spazio di silenzio, nel loro slancio relazionale, nella loro proiezione sonora.

E i grafemi, verbali e non verbali, talora mostrati in inarcamenti di contenuto colore, hanno per caratteri immancabili: la leggerezza quale potenzialità di volo, e la preziosità trasferita agli sbuffi di ornamenti plastici ovvero all’affioramento di rari materiali in elegante aggetto e in predicato di richiami simbolici (oggetti quasi in veste di pegni, di doni), e la grazia danzante delle linee o dei cenni figurali gestiti per concavità e in chiave di accoglienza.

a assumere.   

Tutto depone, in queste opere di Antonio Poce, per un investimento cospicuo, generoso sopra le risorse dell’arte e sulle sue virtù di preservazione e di incremento della bellezza in quanto schiusa e uso di una dimensione stabile, diuturna di socialità, di riflessione, di conoscenza e in quanto appello all’io per atti di valorizzazione della vita. Un’arte perciò plurale, prensile, sventagliata in un ascolto perenne, interlinguistica, polisensa; un’arte offerta come invito a un momento conviviale, giorno dopo giorno, nelle trecentosessantacinque tele di grande formato, tele-desco, del progetto che sta impegnando e che impegnerà Antonio Poce in una impresa a suo modo estrema, basata sulla pronuncia (sulla rimemorazione senza posa) dell’utopia viva di una transustanziazione, di una mutazione dell’immaterialità dell’opera nella sacralità quotidiana del corpo da attingere, del cibo da assumere.        

Tra Occidente e Oriente

di Marcello Carlino

2006

Si vuole che la calligrafia - così nella cultura orientale - azioni in sincrono pittura e scrittura e abbia familiarità con la specie dell’ideogramma, al quale la tradizione estetica cinese riconosce il talento prodigioso di abolire qualunque arbitrarietà nel rapporto tra significante e significato. E perciò accade che sciami calligrafici attraversino, in Occidente, esperienze artistiche di secondo Novecento o assecondino scritture visive d’area d’avanguardia.
Ecco, allora: non per esercitare una perizia e una competenza rare e affascinanti, che sono frutto di una passione e di un amore coltivati giorno per giorno e spesi con vera prodigalità, è perché richiama una sinestesia verbo-visiva e ad essa chiede il ritorno ad una certezza fondativa e ad una pienezza del segno, è per questo che hanno una nuclearità calligrafica di grande valenza strutturale e semantica le opere di Antonio Poce.

Ad una scrittura messa in bella vista e distesa in avvolgenti sequenze Poce affida il senso, di un’energia e di una sacralità della parola, tornata ad essere inaugurale e indicativa come una stella cometa in un viaggio. Non a caso la parola, qui lavorata al tornio calligrafico così che è emendata la sua volatilità, reca un significato forte (che la ripetitività ciclica performa) e non a caso questo significato ha consistenza sempre sapienziale, avendo dimora nei libri sacri (di diversa filosofia religiosa, di diversa antropologia culturale), o negli architesti del narrare il dentro di sé e il fuori (l’Odissea e comunque i libri di viaggio, come quello in interiore homine di sant'Agostino).
E dunque non sorprende che a leggere i segni della scrittura vi si trovini enunciati il tema del tempo o della memoria o di un percorso come di formazione, che coincide con il farsi dell’esperienza tra la vita e la morte. La centralità (per la civiltà a cui dovremmo sentire di appartenere, per essa configurando il nostro esserci) di idee-ricerca e di idee-prassi consegnateci dalla scrittura e da essa soltanto rese manifestabili e comunicabili: questa centralità è nella scelta e nel taglio d’opera di Poce.

Che la acuisce e la invera, la consolida e la conferma conferendo alle serie della scrittura una forma geometricamente rilevabile (per lo più circolare, così da segnare che fine ed inizio coincidono.  O dislocando i tracciati calligraficiin rapporto ad aree cromatiche nella cui compatta campitura la psicologia dei colori parla di archetipi collettivi di stanza nella geografia antropica di qualunque latitudine (l’oro del rito, l’azzurro del viaggio per mare o per cielo, il nero della morte, il rosso della messa in questione di sé). O adoperando una logica di montaggio nella quale vale il collage, ma vale più ancora un’ansia costruttiva che conserva un che di icariano e che perciò, invariabilmente orientandosi verso la significatività altamente simbolica degli oggetti del testo (e conservando un ritmo musicale nel rapporto tra gli elementi di cui l’ l'opera si compone: le serie calligrafiche talvolta mostrano somiglianze con pentagrammi), ripete il motivo delle corde che sostengono un’ala o una vela.  
La quête che si avvia dalla riconversione sinestetica della sapienza scritturale ha per meta un'utopia, che sarebbe segno di civiltà vera, se tutti la inscrivessimo nel nostro orizzonte d'attesa e nel nostro abitare quotidianamente il mondo. E infatti in queste opere di Poce, come nelle tappe di un unico viaggio, percorso tra Occidente e Oriente senza alcuna soluzione di continuità, mi sembra che sia dato cogliere un messaggio che tutte le ispira. E’ trascritto dal Corano e recita così: «Non avrò pace finché non avrò raggiunto la confluenza dei due mari».

                                                                                                                                                                                                                       

Tra Occidente e Oriente

di Marcello Carlino

2015

Nelle composizioni sinestetiche di Antonio Poce è di scena il dire con i suoi orizzonti e i suoi percorsi, con le sue memorie e con le sue attese, con le sue tradizioni e con gli avvistamenti delle sue possibilità, esse che fanno perno sulla parola per prolungarsi e, facendovi centro, per spendersi nella sperimentazione dei segni. Perciò i testi a stampa, riusati in collage, qui appaiono sempre ritagliati come in colonne-fotogrammi con i bordi erosi dal fuoco e dal tempo: indici di una consunzione che ne sperde i significati e, al tempo stesso, di una rottura impetuosa degli argini stabiliti o anche di una perdita, ma piena di ardenti promesse, di quella definizione lineare che usualmente s’adopera da barriera e da confine, sintomo – questo bordeggiare l’indeterminato – di un tendenziale clinamen, dunque di un disporsi in accoglienza di un nuovo intervento di montaggio. E le scritture, assai prossime all’arte sapiente e antichissima della calligrafia, non solo recano incise sul loro corpo le tracce ora riconoscibili ora labili di proiezioni ideogrammatiche, ma a loro volta si mostrano sovente smangiate, lavorate da processi di frammentazione, aperte risolutamente ad altro, sporte oltre la parola verso l’assolutezza incognita e la
simbolica aniconica del visivo.

Per una tale filosofia del comporre, che non può che verificarsi sopra una pluralità di linguaggi e praticare così la via materica del mixage, è costante la duplicità di un contenersi degli elementi nell’area perimetrata da una linea chiusa – quando a disegnare un cerchio, quando una sorta di
ovoide che riporta a cavità uterine – e, per converso, di un espandersi quasi a seguito di un impatto, di un irraggiarsi esplosivo in cui il nero si sfrangia e schizza, dinamizzandosi. E se è l’accelerazione siffattamente a prodursi e a trascinare con sé passate memorie futuriste, tra Balla e tavole parolibere, non v’è dubbio che la lentezza e la stasi pure vi costituiscano valore e vi si pongano a specchio, in forza della cura da miniatore che si percepisce di riflesso dalla mano che scrive per segni graficamente fioriti, nonché in forza della necessità di lettura e di interpretazione, insomma di ricostruzione

semantica, che le stringhe di verbalità (alcune d’autore; altre, le più numerose, prese in prestito da Agostino da Ippona e da Plotino) chiedono obbligatoria-mente, comunque conquistandosi spazio.

Ecco, tutto si gioca sul filo di un dialogismo continuo. Dialogano, in funzione di nuove frontiere del dire, il già detto e consegnato alla scrittura e il non dicibile attraverso la parola; e dialogano lo spazio semantico del testo e quello asemantico provvisto della stessa natura della musica; e dialogano, su di uno spartito sinestetico, la forma compiuta e ciò che non è più o non è ancora forma, il caos e il cosmo. Diciamo a bella posta cosmo perché un disco d’oro (l’oro, il rosso, l’argento, il nero dei grafemi – talora lucidi su campitura opaca dello stesso colore – sono i tratti dominanti; ma contiamo anche degli azzurri e una gemma trova in un punto il suo castone) si lascia guardare di frequente ed ha posizione nodale sembrando supporre un sistema stellare, un planetario, una volta celeste che iscrive in sé l’ordine e al tempo stesso il disordine fecondo di un big bang generatore di vita, l’uno all’altro funzionale, l’uno all’altro connesso in una insmettibile necessità relazionale.
La sfera d’oro polita ha pure lontane frequentazioni alchemiche, allo stesso modo che i colori che gli fanno ala: non è mai disgiunta dal profondo volere dell’arte, né è disgiunta dalle tavole di Antonio Poce, una ricerca come che sia della pietra filosofale, la pietra preziosa per antonomasia; e nella ricerca l’origine e il futuro potenziale, il da sempre e il non ancora espresso, la memoria e il nuovo, la forma e ciò che deve prendere forma stanno in un dialogo serrato, ininterrotto. Sono legati da un unico filo, sicché che molti se ne diano e facciano rete in queste opere in mostra, slanciati e protesi a collegare, davvero non appare un caso.
Un’arte sinestetica di pensiero è infine quella di Antonio Poce, che impegna il linguaggio verbo-visivo in una riflessione acuta e di grande momento espressivo per non recedere dal dire, per approfondire il dire. E che ne rivendica la specifica qualità di esperienza e di conoscenza, una sua prerogativa fondante, un bene comune irrinunciabile.

                                                                                                                                                  

bottom of page